Articolo di Lara Conticello, Associate Partner RSM S.p.A., pubblicato su Economy di Maggio 2024.

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Al suo esordio la Prassi di Riferimento UNI PDR 125: 2022 è stata accolta con grande entusiasmo, affidandogli un compito arduo: intercettare temi innovativi. A dire il vero il tema della parità di genere non è affatto innovativo anzi. Ciò che è stato definito innovativo è l’approccio: strutturare la prassi di riferimento con indicatori di natura qualitativa (già noti strutturalmente nel Sistema di Gestione ISO 9001 per esempio) da un lato, e dall’altro, introdurre indicatori di natura quantitativa, la vera rivoluzione. L’innovazione della prassi di riferimento in sintesi: “non si può migliorare ciò che non si può misurare”. Le aziende che intendono certificarsi sono chiamate a confrontarsi con i numeri ed i fatti, sulla base di un'unica base di riferimento comune a tutte le organizzazioni, siano esse delle imprese, delle associazioni o degli enti di ricerca.  Sono state introdotte delle semplificazioni di applicazione dei “Key Performance Indicators” (KPI) a seconda delle fasce/cluster di classificazione delle organizzazioni. Altro elemento innovativo è rappresentato dal fatto che i KPI variano in base alla fascia e alla tipologia di settore (n.d.r. codice ATECO) dell’organizzazione. La filosofia del documento è quello di colmare il gender gap, sapendo che ci sono dei temi critici, uno fra tutti il divario salariale.

A distanza di due anni dall’introduzione della Prassi di Riferimento, stante anche la numerosità di FAQ presenti sul sito Accredia, si potrebbe iniziare a ragionare su un aggiornamento del documento, per tenere anche conto dell’oggettiva difficoltà di implementazione degli indicatori quantitativi (e alcuni qualitativi) soprattutto nel caso delle PMI. Si è assistito soprattutto all’inizio, a tante aziende che sono partite e si sono fermate per difficoltà di applicazione dei KPI quantitativi. Si fa fatica ad entrare in un processo che è normale, ma così come strutturato, potrebbe diventare un limite ostativo, non tanto all’ottenimento della certificazione, ma al mantenimento degli indicatori negli anni successivi. Infatti, laddove per il primo anno è accettabile l’applicazione di un “entry level”, l’anno successivo deve essere data dimostrazione di un miglioramento.  La prassi di riferimento per come è oggi, presenta quindi alcune aree di miglioramento, soprattutto nei metodi. Ad esempio, calcolare il gender pay gap, non è semplice, richiede una seria di misurazioni e variabili che riguardano il singolo individuo (ad esempio gli anni di anzianità professionale), la cui metrica potrebbe influire sul livello di retribuzione e di conseguenza sul divario retributivo. Sul fronte internazionale degli standard di riferimento, per altro, il tema del gender pay gap è sotto i riflettori, stante l’obbligatorietà di adozione della Direttiva UE 2023/970, in cui, seppur con limitazioni dimensionali, le organizzazioni dovranno rendere pubblici gli stipendi di tutti i dipendenti. La direttiva non si limita a imporre obblighi di informativa: una differenza retributiva superiore al 5% obbligherà l’azienda ad un confronto con i rappresentanti dei lavoratori.

Semplificare alcuni passaggi dell’iter di certificazione potrebbe essere dunque un ulteriore elemento da prendere in considerazione. Le organizzazioni poco avvezze all’implementazione di sistemi di gestione potrebbero decidere di posticipare o addirittura ignorare i benefici (non solo economici) della certificazione, scoraggiate dalla mole di “carta” da preparare: la complessità di misurazione potrebbe nel lungo periodo rappresentare un disincentivo al mantenimento della certificazione della parità di genere, con il rischio di perdere vantaggi e benefici competitivi importanti.