Una recente indagine condotta da The Harris Poll per RSM su un campione di medie imprese britanniche (aziende private con un fatturato compreso tra i 10 e i 750 milioni di sterline e società finanziarie con AuM tra i 200 milioni e i 7,5 miliardi di sterline) ha provato a tastare il polso del cuore pulsante dell’economia reale d’oltremanica sul grado di penetrazione delle tematiche ESG nella loro cultura e nelle loro agende strategiche.

È sorprendente intanto rilevare che quasi la metà dei manager intervistati non ha ben chiaro cosa rappresentino concretamente le tematiche degli impatti ambientali, organizzativi e sociali dell’attività d’impresa e che dunque tali aziende siano del tutto avulse da un auspicabile attivismo formale e sostanziale sugli ESG. È purtuttavia altrettanto interessante evidenziare che circa i tre quarti di coloro che hanno piena consapevolezza di tali tematiche rappresentino aziende che hanno adottato piani d’azione in forma scritta che testimoniano il loro impegno su iniziative ESG friendly. La prima conclusione da trarre è dunque che occorra innanzitutto accrescere il livello di coscienza e di conoscenza del management per costruire una vera cultura green e social che sia in grado di proporre strategie e forme di investimento che abbiano un impatto positivo sull’ambiente e sulla società e per attuare forme di governance ispirate a criteri etici.

Molte delle aziende che hanno adottato piani formali hanno addirittura sposato un approccio integrato, multi-purpose in ambito ESG e circa la metà di esse ha nominato un manager dedicato all’attuazione degli obiettivi programmatici. I C-level delle società virtuose attribuiscono la scelta di sposare gli approcci ESG a ragioni legate alla necessità di ridurre gli impatti dell’attività d’impresa sull’ambiente, al perseguimento di un generale miglioramento del contesto tanto sociale quanto lavorativo e alla presa d’atto che non ci si possa esimere da andare in una direzione oramai obbligata. Sono tuttavia tanti coloro che, in maniera più utilitaristica, evidenziano come le politiche ESG possano rappresentare un volano per migliorare le performance commerciali della loro azienda così come delle ottime vetrine per comunicare meglio i propri valori all’esterno dell’organizzazione. Di converso, sono poche le aziende che declinano la conduzione di un business sostenibile in chiave di mero contenimento dei costi o di abbattimento dei rischi.

La grande maggioranza delle imprese ESG-oriented usa sistematicamente i relativi indicatori per misurare non solo le proprie performance ma anche quelle delle aziende con cui intrattiene relazioni d’affari.

Sebbene il reporting in tema ESG sia richiesto per legge solamente alle società quotate e a quelle di interesse pubblico, esso si sta diffondendo in maniera trasversale in tutto il tessuto economico britannico anche se, soprattutto sulle misure ambientali, non vi sia un unico standard che agevoli la comparazione dei dati disaggregati di realtà disomogenee. Gli standard più largamente usati sono 9, tra i quali Sustainable Development Goals (SDGs), World Economic Forum (WEF), SASB Standards (Sustainability Accounting Standards Board).

Pressoché tutti gli intervistati ritengono che le policy ESG avranno un impatto decisivo in termini di sostenibilità del futuro delle loro rispettive aziende e che le decisioni di investimento che terranno conto degli obiettivi ESG siano sicuramente da preferire. Per il 61% del campione l’aver sposato una filosofia ESG faciliterà l’accesso al credito, in coerenza con la crescente sensibilità verso tali tematiche che si registra presso gli operatori finanziari.

In effetti, l’indagine effettuata da Black Rock nel 2020 su 425 investitori operanti in 27 diversi paesi rivela che le tematiche di sostenibilità stiano divenendo sempre più centrali nei loro approcci di investimento. Il 75% degli intervistati sta già adottando o intende adottare un approccio integrato per tenere conto dei rischi ambientali, sociali e di governance nei propri portafogli e gli asset gestiti conformemente ai requisiti ESG raddoppieranno entro il 2025. I rischi climatici sono fra le maggiori preoccupazioni per la tenuta dei portafogli e, in subordine, anche i grandi temi sociali, quali la diversità e l’inclusione. Più della metà degli intervistati ha poi mosso riserve sulla qualità e sulla disponibilità di dati e analisi ESG, vero ostacolo all’adozione di strategie d’investimento sostenibili. Se molti europei interpretano i vantaggi della sostenibilità dal punto di vista dell’impatto sociale, negli USA gli investitori sono più concentrati sulla gestione del rischio e sulle performance d’investimento.

Ma quali sono le linee di tendenza italiane per lo sviluppo sostenibile delle nostre imprese?

Nel 2020 il Forum per la Finanza Sostenibile e BVA Doxa hanno condotto un’indagine per analizzare le politiche di sostenibilità delle piccole e medie imprese in Italia e la loro propensione a sottoscrivere prodotti SRI per finanziare le proprie attività.

Dall’indagine emerge che un’azienda su tre ritiene che integrare la sostenibilità tra i criteri che guidano le scelte strategiche contribuirà a uscire più rapidamente dalla crisi e che nel new normal post pandemico crescerà in generale la sensibilità verso le tematiche ambientali, sociali e di governance. Il COVID-19 è stato un po’ uno spartiacque per coloro che avevano già messo in atto comportamenti virtuosi in ambito ESG. Da un lato infatti si sono inevitabilmente stoppati alcuni progetti ad alto impatto sociale, dall’altro si è amplificata l’attenzione alla sostenibilità nei confronti dei lavoratori, in termini sia di sostegno finanziario, sia di ricorso allo smartworking. Oltre il 50% delle PMI italiane dichiara di voler estendere le considerazioni riguardanti la sostenibilità alla complessiva strategia dell’impresa. Gli ostacoli sono soprattutto di natura esogena (sistema, burocrazia, mercato) ma anche di natura culturale, fuori e dentro l’azienda.

La finanza sostenibile è ancora molto poco conosciuta dalle piccole e medie imprese nostrane: solo un’azienda su tre ha chiesto supporto o consulenza per investimenti in chiave sostenibile ma si diffonde un sentire comune sull’importanza di affiancare gli indicatori ESG a quelli tradizionali per la valutazione del merito creditizio.

Dall’analisi effettuata dall’Osservatorio AIM di IR Top Consulting e Vedogreen Finance su un campione di 98 aziende quotate nel segmento AIM di Borsa Italiana, emerge poi che il 36% delle aziende intervistate forniscono, su base volontaria, informativa sugli aspetti ESG e che gli investitori istituzionali utilizzano sempre di più criteri ESG nelle loro scelte di investimento di medio-lungo periodo.

Tendenze confermate dalla più recente indagine condotta dall’Osservatorio ESG de Il Sole 24 Ore, sempre nel medesimo segmento, la quale evidenzia che nel 2020, rispetto al 2019, ci sono stati molteplici progressi da parte delle imprese in ambito ESG (n. ESG 2019: 68 su 289 imprese; n. ESG 2020: 115 su 305 imprese). Più nello specifico, nel 2020 sono ben 80 le aziende che hanno adottato una policy ambientale (contro le 46 del 2019), 73 quelle che si sono impegnate verso una maggiore efficienza energetica (erano 47 nel 2019)  e in lieve aumento anche quelle che utilizzano le energie rinnovabili e che si sono impegnate nella riduzione delle emissioni GHG. Anche l’impegno a garantire le pari opportunità e il rispetto dei diritti umani ha subito un’impennata nel 2020, al pari delle iniziative volte a favorire lo sviluppo di carriera e la maternità. Purtroppo c’è ancora molto da fare sulla parità di genere e in particolare sull’incremento della presenza delle donne nelle posizioni apicali, sebbene si sia registrato un piccolo aumento delle presenze femminili nei CdA.

«Come emerge da queste analisi, l’attenzione sui cosiddetti principi ESG è ormai massima – commenta Marco Carlizzi, Partner Head of Legal Department e responsabile ESG di RSM Studio Palea Lauri Gerla, nonché consigliere indipendente di Banca Etica ed Etica SGR. Le tematiche diffuse dall’Agenda 2030 a Parigi per uno sviluppo sostenibile, passate attraverso la Commissione EU (che ha stimato il costo della transizione green in 180 miliardi l’anno) hanno coinvolto innanzitutto il Risparmio Gestito e le grandi società (quotate in borsa o con più di 500 dipendenti) per arrivare lentamente al c.d. “Middle Market”. Questo approdo tuttavia risulta ancora un po’ confuso e condito da un substrato di scetticismo e di volontà di derubricare la transizione ecologica a semplice operazione di marketing».

«Da un lato dunque – prosegue Carlizzi – c’è un grosso rischio di scadere in una mera campagna di greenwashing, dall’altro però se non si applica un principio di proporzionalità e si continua con il (solito) one size fits all si rischia di fallire completamente l’obbiettivo. I principi ESG andrebbero dunque declinati in maniera differente, valorizzando le specificità del medio mercato, ad esempio la sua vicinanza al territorio, ma anche facendo i conti con le sue fragilità, su tutte la minore capacità finanziaria e una maggiore attenzione al contenimento dei costi».

Considerando che in Italia le PMI rappresentano il 92% delle imprese attive e impiegano l’82% dei lavoratori, una loro sensibilizzazione e un loro coinvolgimento attivo sarebbero quindi indispensabili per il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.