Articolo di Lara Conticello, Associate Partner RSM S.p.A. pubblicato su Economy di Novembre 2023.

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PROFILI NORMATIVI

Dal 1° gennaio 2022, le imprese italiane sono chiamate a rendere conto della loro situazione in materia di Parità di Genere nel trattamento dei dipendenti. Si tratta di un obbligo previsto dalla legge n. 162/2021, che ha modificato il Codice delle pari opportunità. Ogni due anni, le aziende pubbliche e private con più di 50 dipendenti devono pubblicare il cosiddetto “rapporto sulla situazione del personale”. Un documento che contiene i dati relativi alle assunzioni, alle retribuzioni, alle carriere, alla formazione e ad altri aspetti che riguardano il personale (senza distinzione di genere). Si tratta di strumenti propedeutici e necessari per condurre le aziende italiane a superare (eventuali) discriminazioni e favorire l’adozione di misure che garantiscano la parità tra uomini e donne nel mondo del lavoro. Entro il 7 giugno 2026 infatti, in forza dell’entrata in vigore della Direttiva UE 2023/970, gli Stati Membri dovranno adoperarsi per offrire più ampie garanzie ai lavoratori, imponendo obblighi informativi a carico delle imprese. Elemento cardine della Direttiva è la trasparenza retributiva: ogni dipendente avrà la possibilità di conoscere e confrontare il proprio trattamento economico rispetto ai propri colleghi (e non soltanto di sesso opposto). Le imprese con più di 250 dipendenti saranno obbligate a rendicontare le divergenze salariali su base annua; quelle più piccole – con almeno 100 dipendenti – lo dovranno fare ogni tre anni.

I VANTAGGI DELLA CERTIFICAZIONE DELLA PARITÀ DI GENERE

Con l’introduzione della prassi UNI/PDR 125:2022 (art. 46 bis del Codice delle pari opportunità) che definisce i criteri per l’ottenimento della certificazione di parità di genere, le aziende che si certificano possono contare sull'esonero parziale dal versamento dei contributi previdenziali dei lavoratori fino all’1% e a un massimo di 50.000 euro annui, oltre ad agevolazioni nell’accesso a gare e appalti pubblici.

Nonostante i tentativi di annacquamento dell’introduzione dell’obbligatorietà della Certificazione della Parità di Genere nello schema Codice degli Appalti (che potrebbero risultare vani, nel breve e lungo periodo, stante la Direttiva UE 2023/970), il Decreto-legge 29 maggio 2023, n. 57/2023, ha eliminato il riferimento all’autocertificazione, e ha stabilito che il rispetto dei requisiti di Parità di Genere debba essere comprovato dal possesso della relativa certificazione. Sembrava di essere tornati indietro, ma siamo andavi avanti, seppur con una marcia ridotta: il requisito infatti è facoltativo. In altri termini se una Società che partecipa ad una gara d’appalto ottiene un punteggio basso sui requisiti Parità di Genere, non ha precluso l’ottenimento ed il raggiungimento di altri punteggi premiali, e quindi l’aggiudicazione della gara seppur in assenza della Certificazione della Parità di Genere.  

CERTIFICAZIONE: OBBLIGO O FACOLTÀ?

La richiesta di certificazione della Parità di Genere, dunque, avviene su base volontaria e su iniziativa dell’impresa. La Certificazione non è oggi un requisito obbligatorio. È ragionevole attendersi tuttavia, che lo diventi stante l’obbligatorietà di adozione della Direttiva UE 2023/970, in cui, seppur con limitazioni dimensionali, come abbiamo detto, le Società dovranno rendere pubblici gli stipendi di tutti i dipendenti. La direttiva, inoltre, non si limita a imporre obblighi di informativa: una differenza retributiva superiore al 5% obbligherà l’azienda ad un confronto con i rappresentanti dei lavoratori. Una novità questa che nel concreto potrebbe davvero rappresentare una leva per il raggiungimento della Parità di Genere. Una disparità salariale celata fino a quel momento magari dietro “buoni propositi” di adeguamento, potrebbe obbligare l’azienda a fare i conti con problematiche di certo non trascurabili di “reputation”.

LO SPETTRO DEL PINKWASHING

La Parità di Genere è un principio fondamentale per il rispetto dei diritti umani e per lo sviluppo sostenibile delle società. Tuttavia, non sempre le imprese e le istituzioni che si dichiarano favorevoli alla Parità di Genere potrebbero apparire coerenti con le loro affermazioni. Il rischio del fenomeno del pinkwashing, è dietro l’angolo, se le dichiarazioni di intenti di apertura e sostenibilità verso le questioni di genere, nascondono ad esempio interessi economici. Cosa accade ad esempio a quelle aziende che, hanno ottenuto la certificazione della Parità di Genere, con solo l’intento di risparmiare l’1% dei contributi, ottenendone anche il beneficio dei voucher della Regione Lombardia (e adesso anche della Regione Puglia), e che non riescono a mantenerne i requisiti nel tempo? Si torna indietro, si restituiscono i voucher ottenuti e si richiede da parte dell’Inps la restituzione dei contributi non versati in forza della certificazione? Se poi si è dotati anche del Modello di Organizzazione Gestione e Controllo ai sensi del D.Lgs 231/2001 è verosimile il rischio di sanzioni per gli illeciti derivanti dal fenomeno del pinkwashing alla stregua di quanto sta già accadendo in termini di greenwashing?

L’attenzione per le pari opportunità e l’inclusione potrebbero esser perseguiti dalle aziende per soli motivi di compliance o reputazionali, con interventi poco incisivi o lungimiranti, i quali avviano meccanismi che rispondono solo a logiche reattive di breve termine, che recepiscono pratiche a cui conformarsi solo in nome di una tendenza diffusa, della moda del momento. 

Occorre promuovere una cultura etica e di rispetto dei valori di Parità di Genere che guidi le imprese ad affrontare la grande sfida adottando una nuova prospettiva, che faccia emergere il valore che porta con sé l’impegno in tematiche DE&I (Diversity Equity & Inclusion), interpretato come valore intrinseco di business. Questo anche grazie ad un lavoro di sensibilizzazione dei leader d’impresa e creazione di percorsi mirati a catturare il potenziale nascosto di una cultura inclusiva. L’impegno a volere un cambiamento concreto deve infatti partire da dentro, dal top management che ha la visione d’insieme, l’intuizione e il coraggio di comprendere come tutto debba concorrere alla creazione di un ecosistema inclusivo, che coinvolga tutte le aree di un’organizzazione. Secondo questo percorso, l'integrazione del concetto di diversità o inclusione nella mission aziendale non appare più un atto di comunicazione superficiale o un trucco per ammiccare alle nuove generazioni, ma l’espressione di una strategia complessiva che allinea obiettivi, KPI e iniziative e che serve da guida per il comportamento di tutti e tutti, dal Management ai nuovi assunti.