di Sergio Luciano – direttore di Economy e Investire

Umberto Ambrosoli è stato l’ospite speciale del Talk Show RSM dedicato alla complessa relazione tra etica e professione.

“C’è una frase sull’etica nella professione che a me suona sempre nella memoria – dice, parlando via Teams a cento professionisti di Rsm Revisione Umberto Ambrosoli, avvocato penalista, presidente di Banca Aletti e figlio di Giorgio, l’”eroe civile” ucciso dalla mafia su mandato di Michele Sindona per non aver voluto deflettere dai suoi doveri di liquidatore della Banca Privata. “La frase che mi torna nella memoria è di Papa Paolo VI – continua Umberto Ambrosoli – che in un’intervista di molti anni fa, alla domanda su quali esempi avesse ricevuto dai genitori, risposte così: “Mio padre non ha mai sacrificato per la vita le ragioni della vita”. Ecco: nel riflettere se l’etica nella professione sia un vincolo o piuttosto un traguardo vincente dobbiamo valutare in relazione alle ragioni della nostra vita”.

Umberto Ambrosoli è l’ospite d’eccezione del talk-show on-line organizzato da Rsm sul tema “Etica e professione: un vincolo o un traguardo vincente?"; professionista di successo proprio nel settore del diritto penale dell’economia ed uomo pubblico con un impegno civico nel centrosinistra, è autore di vari scritti e saggi tra cui “Qualunque cosa succeda” – Sironi Editore; "Diritto all'oblio, dovere della memoria. L'etica nella società interconnessa" - Bompiani; e "Ostinazione civile” - Guerini e Associati. E' inevitabile attendersi da lui una narrazione in qualche modo collegata alla vicenda devastante che ha posto fine alla vita di suo padre e certo segnata la sua, all’epoca dei fatti ancora bambino. Ma il modo in cui Ambrosoli ne ha parlato, ricollegandola al tema sul quale Rsm lo aveva sollecitato, è stato sorprendente per l’insieme di lucidità, precisione e serena severità con cui l’ha fatto.

“Quando mio padre ha vissuto quei cinque anni di tremenda responsabilità che si sono poi conclusi in quel modo, attorno a lui non c’era il sostegno diffuso di un’opinione pubblica favorevole. Certo, qualcuno aveva capito la gravità di quelle vicende e ciò che papà stava facendo, ma -pur con rilevanti eccezioni- aleggiava lo stesso pensiero disfattista sull’ineluttabilità del male e del malaffare che purtroppo spesso respiriamo ancora oggi. E allora, e per questo, nel ripensare a quella vicenda dobbiamo alzare le antenne, adesso, e capire chi nel nostro presente è capace di assumere le necessarie responsabilità… e capirlo anche per alimentare la nostra fiducia. L’assenza della fiducia determina l’assenza dell’azione e l’impossibilità di un cambiamento. Che invece va perseguito con l’esercizio della responsabilità, pur consapevoli che spesso le norme confuse e confusive rendono ancora più difficile l’esercizio di questa responsabilità”.

Rocco Abbondanza, Managing Partner di Rsm Revisione, nell’introdurre lo speech, sottolinea di aver pensato “quanto sarebbe bello che il libro ‘Qualunque cosa succeda’ fosse sul comodino di ciascuno dei professionisti della nostra società, e quindi parlarne qui oggi con l’autore è un sogno che si avvera”.

“La vostra attività, come la mia – esordisce Ambrosoli - si fonda sul fatto che chi la pone in essere abbia studiato e acquisito competenze tecniche. Ma questo presupposto c’interroga sui limiti e i criteri della tecnica. Zygmunt Bauman nella sua opera ammonisce sul rischio che i criteri razionali propri della tecnica possano comportare l’insidia del superamento dei criteri metarazionali, tra i quali il giudizio morale, e ciò attraverso la distanza che c’è tra ogni azione e i suoi effetti. Spesso gli obiettivi remoti di un’azione risultano svincolati da un giudizio morale. Com’è stato studiato sulla storia dell’Olocausto. La distanza che avvertiamo tra noi stessi e l’esito delle nostre azioni è poi condizionata dalla lunghezza della catena di intermediari che si frappongono fra esse e l’esito, al punto che le azioni finiscono con l’apparirci come movimenti privi di conseguenze. Così, in certi casi, gli individui possono porre in essere le azioni tecniche più abominevoli senza cogliere il disegno nel quale si inseriscono. La tecnica, poi e per sua natura, contribuisce a focalizzare la nostra attenzione sul segmento nel quale si opera, e quindi sul solo effetto immediato. ‘Devo fare bene da qui e fin lì, e basta’. In questo modo, il rischio di restare svincolati da qualunque scrutinio morale è ulteriormente accentuato.

In conclusione: il rischio è quello di impiegare solo valutazioni tecniche e non anche morali

Per Umberto Ambrosoli la storia di suo padre è “paradigmatica del fatto che il nucleo non è nella sola preparazione tecnica e nemmeno nella mera forza morale, ma nella professionalità. Mio padre era un avvocato civilista che venne chiamato a fare il commissario liquidatore in una procedura delicatissima per l’enormità degli interessi in gioco. Ricevette l’incarico appena quarantenne. Quando venne chiamato a Roma dal Governatore della Banca d’Italia ci andò con un’idea molto vaga del perché di quella convocazione: solo lì apprese la responsabilità che gli veniva attribuita quale commissario unico, non inserito in alcun collegio, privo quindi di colleghi con cui condividere scelte difficili che quella responsabilità comportava”.

“Si insediò subito alla Banca Privata Italiana, dove la notte precedente alcuni camion avevano però portato via decine e decine di faldoni lanciati direttamente dalle finestre nei cassoni: si doveva impedire che la documentazione della banca potesse essere vagliata da chi avrebbe dovuto affrontare la liquidazione coatta amministrativa. In quel momento, il dominus della Banca Privata  era già fuggito all’estero, in Svizzera, per sfuggire ad un mandato d’arresto per violazioni valutarie. Quando la Procura di Milano sta per emettere altro mandato, ma questa volta per il reato di bancarotta fraudolenta, dalla Svizzera va in Cina e poi in USA, paese con il quale allora non vigeva alcun trattato per l’estradizione. Intanto in tantissimi chiedevano di essere ammessi all’elenco dei creditori e dal commissario liquidatore venivano opposti molti no: perché la corretta ricostruzione delle operazioni alle quali quelle richieste si riferivano, era più spesso idonea a dimostrare la corresponsabilità dei loro promotori in attività illecite propedeutiche al fallimento della Banca che la loro asserita condizione di vittime di una bancarotta. Tra esse si trovano anche rappresentanti di istituzioni pubbliche, dello Ior - complice di Sindona per il tramite dell’arcivescovo Marcinkus. Anche col sistema imprenditoriale non sempre i rapporti che emergevano erano caratterizzati da ortodossia e Sindona con le sue banche - in Italia 3 ma anche in Liechtenstein, Svizzera, in USA e oltre 200 società nel mondo – aveva tessuto una fitta rete di complicità. Il fine della liquidazione era recuperare quanto più possibile di ciò che era stato distratto dalla Banca. La liquidazione avrebbe poi dovuto restituire allo Stato quando subito “anticipato” per soccorrere i correntisti non immeritevoli. Menti raffinate e competenze tecniche altissime partecipavano però intanto all’elaborazione di un piano di salvataggio della banca. Singolarmente presi, questi contributi non avevano quasi mai una connotazione patologica, ma il risultato finale perseguito l’aveva. Perché il soggetto pagatore - secondo quel piano - sarebbe lo Stato, che avrebbe rinunciato al credito secondo una condivisione di una finalità rivendicata da Sindona e dai suoi sodali con un pretesto: bisognava rappresentare agli investitori esteri che si erano affidati a delle banche italiane che lo Stato non le avrebbe lasciate fallire … E in questo modo, secondo loro, l’economia nazionale ne avrebbe tratto giovamento. Paradossalmente anche il lavoro di papà era responsabile di questo progetto, in ragione dell’efficacia dell’azione di recupero portata avanti per oltre quattro anni con centinaia di azioni legali avviate in mezzo mondo. Quindi, con tutti quei soldi recuperati, perché non revocare la dichiarazione di fallimento?”

“In quella fase le pressioni perché il piano di salvataggio andasse in porto furono molto pesanti. Pressioni di vario genere e tipo. Alcune blande. Più professionisti, anche amici, che andarono da papà: “Ma perché ti vuoi mettere contro tutta questa gente? Sei giovane, la tua vita professionale è ancora lunga, perché inimicarti persone che un domani potranno esserti utili? Non essere così intransigente”. Per poi scoprire che il consiglio era tutt’altro che disinteressato.

Sindona arrivò a prospettare per lui, tramite un intermediario, la presidenza della banca rinata. Niente. Allora l’attacco è stato mediatico e con denunce in tutte le sedi possibili (pure in Svizzera). Ma ogni lusinga è vana, come ogni pressione e così iniziarono le minacce di morte. Sindona, per l’ordinamento italiano era latitante negli USA, dove poi per il fallimento della sua Franklin National Bank, in forza delle prove arrivate dall’Italia, era stato anche arrestato e subito liberato su cauzione (la più salata della storia fino a quel momento per quella tipologia di reati), ma non era certo stato isolato dal sistema di potere che aveva contribuito a creare. Da lui si recavano ancora in tanti, incluso un sottosegretario della Presidenza del Consiglio: proprio per concordare il l’ennesima versione del piano di salvataggio, perché la politica è pronta ad agire, il Governo ad approvarlo. Nelle minacce che arrivavano da Sindona si spiega ad Ambrosoli che se lui avesse dato il suo ok, la Banca d’Italia l’avrebbe seguito. Il potere di chi fa queste pressioni si esalta nell’ aggressione incredibile all’autonomia della stessa Banca d’Italia di cui in quei giorni viene arrestato il direttore generale e capo della vigilanza Mario Sarcinelli e viene ritirato il passaporto al governatore Paolo Baffi. Entrambi coesi, col vicedirettore generale Ciampi, a non portare avanti un piano non avallato dal commissario.

“Mio padre e i suoi collaboratori restarono convinti che il salvataggio fosse solo un modo per fregare gli italiani aggirando le regole. Le minacce diventano sempre più insistenti, inquietanti, ma non fanno deflettere né papà né i suoi. Di qui la decisione di Sindona di dar seguito a quelle minacce con l’invio di un killer dagli Usa. Il resto è storia processuale. L’omicidio è del ’79. Nell ’86 c’è la sentenza per fallimento. Nell’87 la condanna di Sindona, che poi morirà avvelenato in carcere dopo aver consapevolmente assunto una dose di cianuro. Nessun elemento ha mai inficiato le risultanze di quel processo”.

Quel titolo del libro, “Qualunque cosa succeda”, è parte di una lettera di Giorgio Ambrosoli a sua moglie, mai consegnatale, che passa alla storia come suo testamento morale e che recita più o meno così: Ricordi il nostro desiderio mai realizzato di fare politica nell’interesse del Paese e non di un partito? Ecco: a 40 anni ho avuto la possibilità di fare esattamente questo. So che per me non può che derivarne negatività. Chi grazie a me riavrà ciò che gli spetta, non ringrazierà, chi per colpa mia non avrà ciò che pretende, me ne darà la colpa.

 “Mio padre guardò non al singolo segmento operativo del ruolo affidatogli ma al senso dell’intera vicenda e comprese che l’affermazione di quel senso potesse scontrarsi con qualcosa di altrettanto forte. Ma capì anche che la propria competenza ed esperienza tecnica erano strumento per contribuire ad un cambiamento eticamente orientato”.

“Pochi giorni dopo l’omicidio – racconta ancora Ambrosoli, avviandosi a concludere - uscì un articolo sul Giornale, firmato da Marco Vitale: ‘Non conoscevo Ambrosoli ma seguivo la sua opera, e se gli uomini si giudicano dalle opere e non dalle parole, lui era un professionista. A me sembra che sotto il profilo pubblico sia soprattutto questa la sua caratteristica da sottolineare. Professionista è chi subordina se stesso agli scopi ordinamentali e istituzionali … ce ne sono sempre meno in tutti i campi. Essere professionisti alla Ambrosoli non è cosa da poco, ed è dimostrato dal fatto che per questo solo fatto Ambrosoli è caduto sul campo’. Più di recente, Marco Vitale ha proposto, attraverso una riflessione sulla vicenda di papà, un’analisi importante sui canoni della professionalità. Egli l’ha fatta risalire alla scuola medica di Ippocrate, in quel testo che conosciamo come giuramento di Ippocrate. Il Giuramento è composto da 8 articoli. Il secondo ne è il cardine. Credo sia pregnante di significato per tutte le attività professionali. Non a caso ha attraversato i millenni: ‘Mi servirò delle mie conoscenze per giovare agli infermi’, dice. Il fine secco, preciso, inequivocabile è quello di giovare agli infermi. Questo è il fine che la società ci assegna, questo il nostro mandato, solo se gli saremo fedeli saremo legittimati… Questo fine è una luce e una bussola più che sufficiente per analizzare e risolvere questioni concrete… E dice Vitale: il contenuto positivo è quello di assumersi le proprie responsabilità; quello negativo è il dovere di non giudicare secondo influenze e schemi di riferimento precostituiti… e mi asterrà da danno e ingiustizia, conclude infatti il Giuramento”.

Guarda il video dell’intervista a Umberto Ambrosoli.

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